lunedì 29 settembre 2008

LA PERCEZIONE DELLA PROFONDITA'

Guardandoci attorno percepiamo un mondo di oggetti più o meno solidi e variamente distribuiti nello spazio: percepiamo cioè un mondo tridimensionale.

Ma quando indirizziamo lo sguardo verso qualcosa, le imma­gini che si formano sulla superficie delle retine oculari non sono altro che immagini bidimensionali.

Come è possibile dunque avere una visione tridimensionale del mondo a partire da due immagini «piatte», quali appunto quelle retiniche?

Una prima risposta porta a considerare che, da centro a cen­tro, tra i nostri due occhi c'è una distanza di sei - sette centimetri. Conseguentemente dei due occhi l'uno vede le cose in maniera lievemente diversa dall'altro. E facile rendersi conto di questa dissomiglianza - che viene denominata disparità retinica ­guardando un oggetto prima con un occhio e poi con l'altro. Così facendo, ci accorgeremo che l'oggetto appare volta a volta in posizione diversa rispetto allo sfondo, e che tale diversità è tanto maggiore quanto più l'oggetto osservato è vicino a noi.

Ebbene, il nostro sistema visivo utilizza proprio le differenze

esistenti tra i segnali provenienti dalle due immagini retiniche, per conferire tridimensionalità alle cose che vediamo. Ossia, in altri termini, il nostro cervello opera la fusione delle due imma­gini retiniche dando come risultato la visione stereoscopica.

Un esempio di applicazione della fusione ottica di due imma­gini sfalsate per ottenere una visione tridimensionale è offerto da un apparecchio assai comune chiamato appunto stereoscopio (dal greco stereos, rigido, solido e, per estensione, tridimensio­nale; e skopéo, osservo), inventato nel 1832 dal fisico inglese Charles Wheatstone.

Però quando gli oggetti si trovano ad una distanza che supera i cento metri, in pratica non vi è più alcuna disparità fra le immagini retiniche e pur tuttavia riusciamo ugualmente a man­tenere la percezione della tridimensionalità. Altrettanto avviene quando passiamo dalla visione bioculare a quella monoculare, ovvero quando guardiamo con un occhio solo.

Evidentemente, oltre ai dati forniti dalla disparazione biocu­lare e da altri meno rilevanti meccanismi fisiologici, nel giudica­re la collocazione degli oggetti nello spazio e per valutare la loro distanza relativa, noi ci avvaliamo anche di altri criteri o indizi dei quali non sempre siamo pienamente consapevoli, mentre invece è utile saperli distinguere e riconoscere. Perciò nelle due pagine che seguono vengono descritti e illustrati gli indizi più frequentemente riscontrabili nella valutazione, dal ve­ro o da immagini, di situazioni spaziali.


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